Archivi tag: provincia di Napoli

La mattina di Natale

di Martina Caschera

Le persone sono chiuse in palazzi dai colori pastello, per lo più giallini e arancioni, non escono, molto probabilmente dormono.
I raggi di luce mattutina che penetrano nei pezzi di cielo lasciati liberi da una notte di pioggia infame colpiscono quei palazzi facendoli risplendere.
Napoli, vista così, consiste in una macchia color ambra e cenere, informe, sbilenca, che si cala dalla terra frastagliata e si spinge fino al mare. Mentre l’auto percorre l’arteria della tangenziale, globulo rosso solitario ma deciso, da passeggero scorgo la città dal di dentro. Intravedo il mare, le incertezze dei confini dell’orizzonte collinare, i grumi informi di palazzi palazzini e palazzetti, i riflessi centro direzionale, il castello che si affaccia sul mare scrutando imperscrutabili distanze. Piccola come una volta, in silenzio mi faccio trasportare da mio padre che guida verso casa.
È la mattina di Natale, per strada non c’è anima viva e anche la tangenziale sembra semplicemente una strada sgombra e non l’inferno urbano di cui sempre si parla. Se alzo gli occhi vedo solo grosse nubi che si compongono in tutte le tonalità del grigio e pochi stracci di nuvolette basse, un po’ ridicole nella loro minacciosità. Oggi non pioverà perché ieri notte ha diluviato e Dio non può essere così incazzato con noi.
Anche se la pioggia non ha pulito, non ha lavato i nostri peccati, nonostante fosse la vigilia, nonostante si dica che la pioggia sia capace di fare anche questo, Dio non può mandarci un Natale di pioggia.
Dopo la pioggia la città è rimasta la stessa e oggi è solo più quieta e dormiente. Anche se sembra innocua vista così, vista in movimento, quasi come se io fossi “solo di passaggio”, non c’è nulla di meno innocuo di Napoli.
La tangenziale che dal centro direzionale taglia tutto come un bisturi impietoso mi mostra la carne nuda e la malattia in corso d’opera, che si mangia i palazzi con la sua polvere, la sua spazzatura.
Nel silenzio del post-mangiatoria, nella quiete di una città immobile, tutta luce riflessa, illuditi, per il tempo di questo viaggio, che Napoli sia solo bella, ferma, immobile e vuota, come congelata in quelle palle di vetro che capovolgi e cade la neve: vedila così, silenziosa, in un ossimoro irreale che sa tanto di fiaba natalizia.


Se Steve fosse nato in provincia di Napoli

C’è un post che negli ultimi due giorni sta facendo un po’ il giro della rete.
Si parla di idee e creatività, di luoghi e di opportunità, con quel sorriso amaro che chi vive a Napoli conosce bene.
Noi ve lo riportiamo qui e aspettiamo di sapere cosa ne pensate.

di Antonio Menna*

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Mettiamo che Steve Jobs sia nato in provincia di Napoli. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi.

Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare.

Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”.

I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano.

Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi?

Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista a Napoli che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”.

I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare.

Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”.

Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro.

Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”.

I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti.

La Apple in provincia di Napoli non sarebbe nata, perché saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

***

*Antonio Menna è giornalista e addetto stampa. Ha pubblicato due romanzi e diversi racconti. Trovate il suo blog cliccando qui.


Acerra

di Domenico Cosentino*

E così mi ritrovo seduto su queste poltrone di plastica grigie scomode come un ananas su per il culo.  Intorno gente annoiata, intorno fetore di cibo scaduto e sudore stantio. Cerco di non pensarci, di non pensare a lei e mi distraggo osservando la finta campagna della provincia. Prati sporcati da innumerevoli eiaculazioni lasciano il posto ad esili alberi da frutta avvelenati da discariche nascoste sotto finte colline di terriccio. Cavalli maculati brucano erba gialla ed anziani contadini sono chini sul loro misero raccolto.

Veleno ovunque, sostanze che inquinano anche i tuoi pensieri, i tuoi ricordi. Andare da lei significa ansia, avventura. Andare da lei e abbracciarla, aspettarla alla stazione di Acerra in quel giardinetto frequentato da spacciatori dilettanti dove la aiuole chiedono aiuto ad un Dio che ormai è diventato sordo. Rom (non è etico ora chiamarli zingari) chiedono l’elemosina in modo invasivo per poi giocarsi gli spiccioli raccolti nelle slot-machine del centro commerciale. Qualcuno storce il naso, altri fingono che tutto questo non sia reale, che sia un incubo e aspettano di svegliarsi.

Lei scende dalla terza carrozza, si gira e cerca il mio sguardo, spaesata, sembra fragile. Mi vede e sorride, abbassa lo sguardo e i capelli lunghi le coprono il viso. Nell’aria le note di una canzone di Frank Sinatra e olezzo di plastica bruciata.

***

*Domenico Cosentino ha pubblicato recentemente “Come un calzino bucato”, una raccolta di poesie dedicate alla precarietà. Potete acquistare questo e gli altri libri di cui è autore cliccando QUI.